sabato 29 dicembre 2012

S.Maria Novella -Il Chiosco verde e il Cappellone degli Spagnoli


Nel 1219, dodici domenicani arrivarono a Firenze da Bologna, guidati da Fra' Giovanni da Salerno. Nel 1221, ottennero la piccola chiesa di Santa Maria delle Vigne, così chiamata per i terreni agricoli che la circondavano (all'epoca fuori dalle mura)
 Nel 1242 la comunità domenicana fiorentina decise di iniziare i lavori per un nuovo e più ampio edificio, ottenendo dal papa la concessione di indulgenze per chi avesse contribuito economicamente ai lavori già a partire dal 1246. Il 18 ottobre 1279, durante la festa di San Luca, venne celebrata nella Cappella Gaddi la cerimonia della Posa della Prima Pietra con la benedizione del cardinale Latino Malabranca Orsini, anche se di fatto i lavori erano già da tempo iniziati. La nuova chiesa aveva la facciata orientata verso sud. La costruzione fu completata alla metà del XIV secolo. Il progetto, secondo fonti documentarie molto controverse, si deve a due frati domenicani, fra' Sisto da Firenze e fra' Ristoro da Campi, ma partecipò all'edificazione anche fra' Jacopo Passavanti, mentre il campanile e buona parte del convento si deve all'intervento immediatamente successivo di fra' Jacopo Talenti. La chiesa, sebbene già conclusa verso la metà del Trecento con la costruzione dell'adiacente convento, fu tuttavia ufficialmente consacrata solo nel 1420 da papa Martino V che risiedeva in città


La vela Rucellai nel fregio

Stemma Rucellai nella chiave di volta
Su commissione della famiglia Rucellai, Leon Battista Alberti disegnò il grande portale centrale, la trabeazione e il completamento superiore della facciata, in marmo bianco e verde scuro, terminata nel 1470. Dopo il Concilio di Trento, tra il 1565 e il 1571 la chiesa fu rimaneggiata ad opera di Giorgio Vasari, con la rimozione del recinto del coro e la ricostruzione degli altari laterali, che comportò l'accorciamento delle finestre gotiche. Tra il 1575 e il 1577 fu costruita da Giovanni Antonio Dosio la cappella Gaddi. Un ulteriore rimaneggiamento si ebbe tra il 1858 e il 1860 ad opera dell'architetto Enrico Romoli.
 Sull'architrave superiore campeggia un'iscrizione che ricorda il benefattore e un simbolico anno di completamento, il 1470: IOHA(N) NES ORICELLARIUS PAV(LI) F(ILIUS) AN(NO) SAL(VTIS) MCCCCLXX (Giovanni Rucellai, figlio di Paolo, anno 1470). L'elegante fregio marmoreo centrale con le "vele con le sartie al vento" altro non è che l'emblema araldico di Giovanni di Paolo Rucellai.
Lo stesso simbolo, che si può vedere sulla facciata del palazzo e della loggia Rucellai, nonché sul tempietto del Santo Sepolcro in San Pancrazio, compare anche sui pilastri angolari, che in alto portano anche lo stemma familiare Rucellai.
L'intervento dell'Alberti si innestò quindi sulle strutture gotiche precedenti, ma seppe unificare la parte nuova e quella antica tramite il ricorso alla tarsia marmorea, derivata dal Romanico fiorentino (Battistero di San Giovanni, San Miniato al Monte, Badia Fiesolana). Questo retaggio tradizionale venne rielaborato secondo la lezione classica e i principi della geometria modulare, valorizzando la storia dell'edificio e il contesto locale.

 Sulla facciata compaiono anche delle strumentazioni scientifiche aggiunte nel 1572-1574: a sinistra un'armilla equinoziale in bronzo, a destra un quadrante astronomico in marmo con gnomone, opere del domenicano fra Ignazio Danti da Perugia (1555-1586), astronomo e cartografo granducale. Il frate astronomo, grazie a queste strumentazioni, riuscì a calcolare esattamente la discrepanza fra il vero anno solare e il calendario giuliano, allora ancora in uso fin dalla sua promulgazione nel 46 d.C. Dimostrando i suoi studi con una commissione di altri studiosi a Roma a papa Gregorio XIII si ottenne il riallineamento dei giorni e la promulgazione del nuovo calendario gregoriano, saltando in una notte del 1582 dal 4 ottobre al 15 ottobre.

La chiesa fu la prima basilica dove vennero usati elementi dell'architettura gotica a Firenze, in particolare i caratteri tipici dell'architettura gotica cistercense. Presenta una pianta a croce latina commissa (cioè a T), suddivisa in tre navate con sei ampie campate che si rimpiccioliscono verso l'altare La copertura è affidata alle volte a crociera a costoloni con archi a sesto acuto, decorati da pitture parietali bicrome bianco-verdi, sostenute da pilastri polistili, cioè a sezione mista.
Un grande tramezzo separava anticamente il presbiterio, l'area riservata ai religiosi, dalle navate longitudinali dove prendevano posto i fedeli, ma venne demolito tra il 1565 e il 1571, quando vi lavorò Vasari su commissione di Cosimo I. Nello stesso periodo vennero accorciate le monofore lungo la navata, in modo da lasciare in basso lo spazio per nuovi altari laterali. Il pavimento ospitava anticamente numerosissime lapidi funebri, che vennero selezionate nel restauro del 1857-1861 e in parte poste tra i pilastri laterali. Sempre nell'Ottocento, venne ricostruito l'altare centrale, in stile neogotico, e vennero ricomposte le finestre e gli altari laterali, dando alla chiesa l'aspetto attuale.
In fondo alla navata principale, ad un'altezza di 45 metri,


 è stato ricollocato dal 2001 il Crocifisso di Giotto (databile verso il 1290), dopo dodici anni di restauro, nella posizione dove verosimilmente doveva trovarsi fino al 1421. Leggermente inclinato in avanti, è sorretto da una struttura metallica sospesa, ancorata ad un argano che ne consente l'abbassamento fino a terra.
Nella controfacciata è interessante la lunetta del portale centrale, con una Natività, affresco staccato di Sandro Botticelli.


In quella del portale di sinistra si trova un'Annunciazione su tela, l'ultima opera di Santi di Tito. In quella di destra infine si trova un affresco trecentesco di autore ignoto, con un'Annunciazione che sormonta la Natività, Adorazione dei Magi e Battesimo di Cristo.

Altari della navata sinistra

 

Numerose e di altissimo profilo sono le opere d'arte, fra le quali spicca la Trinità di Masaccio, opera sperimentale sull'uso della prospettiva, a proposito della quale il Vasari ebbe a dire: "Pare che sia bucato quel muro". Rappresenta uno dei più importanti capolavori dell'arte rinascimentale, attuazione dei nuovi canoni stilistici in pittura, al pari dei traguardi architettonici di Brunelleschi e scultorei di Donatello. La scena sacra è ambientata in una monumentale architettura classica, disegnata con punto di fuga realistico per essere guardata dal basso, mentre la figura di Dio sorregge la Croce di Cristo, con un atteggiamento maestoso, eloquente e solenne. Un recente restauro ha evidenziato la possibile collaborazione di Filippo Brunelleschi nel disegno della prospettiva dello sfondo. Anche le figure dei committenti, i coniugi Lenzi, inginocchiate ai lati della scena, rappresentano un'importantissima novità, dipinte per la prima volta a dimensione naturale, non piccole figurine di contorno, e con un notevolissimo realismo oltre al quale traspare anche il loro senso di religiosità e la devozione. La scritta sul sarcofago è un memento mori.


Il pulpito venne commissionato dalla famiglia Rucellai, disegnato da Filippo Brunelleschi, eseguito da Giovanni di Pietro del Ticcia e scolpito sui quattro pannelli a bassorilievo dal figlio adottivo del Brunelleschi, Andrea Cavalcanti detto il Buggiano.




L'ornamentazione fu affidata a Giuliano di Nofri e Bartolo di Antonio. Il tutto fu realizzato tra il 1443 e il 1448.
I quattro pannelli decorati a bassorilievo raffigurano Storie di Maria, precisamente l'Annunciazione, l'Adorazione del Bambino, la Presentazione al Tempio e l'Assunzione della Madonna. I bassorilievi furono lumeggiati d'oro solo nel XVIII secolo.
Il pulpito ha anche un'importanza storica: da qui il frate domenicano Tommaso Caccini lanciò il primo attacco contro le scoperte di Galileo Galilei, il 21 dicembre 1614.

Le cappelle del transetto

Cappella Maggiore

 
La Cappella Maggiore o Cappella Tornabuoni si trova al centro della chiesa dietro l'altare maggiore. Il Crocifisso centrale è un'opera del Giambologna. Il coro conserva un importantissimo ciclo di affreschi di Domenico Ghirlandaio, al quale probabilmente lavorò anche un giovanissimo Michelangelo Buonarroti, allora nella sua bottega. Sono rappresentati episodi della Vita della Vergine e San Giovanni, ambientate nella Firenze contemporanea e con numerosi ritratti dei committenti e di personalità fiorentine dell'epoca, caratteristica tipica del Ghirlandaio. Sul muro posteriore sono raffigurate le scene di San Domenico che brucia i libri eretici, Il martirio di San Pietro, L'annunciazione e San Giovanni nel deserto. Sugli spicchi della volta sono rappresentati gli Evangelisti.
Le vetrate policrome furono eseguite nel 1492 da Alessandro Agolanti su disegno di Ghirlandaio.

 

La Cappella Maggiore di Santa Maria Novella venne affrescata una prima volta verso la metà del XIV secolo dall'Orcagna. Resti di questi affreschi più antichi furono rinvenuti durante i restauri degli anni '40 del Novecento, quando, soprattutto nella volta, riemersero figure di personaggi dell'Antico Testamento sotto gli affreschi successivi, che vennero a loro volta staccate ed oggi sono esposte nell'ex-refettorio che fa parte del Museo di Santa Maria Novella
La famiglia Sassetti, ricchi banchieri legati ai Medici, aveva acquistato da molte generazioni i diritti di decorazione sull'altare principale della chiesa, mentre le pareti della cappella e il coro erano prerogativa della famiglia Ricci, i quali però ormai non navigavano più in buone acque, non essendosi più ripresi del tutto dal crollo finanziario delle compagnie fiorentine del 1348. Per questo gli affreschi dell'Orcagna erano nella seconda metà del Quattrocento già gravemente compromessi, non avendo potuto i Ricci provvedere nel tempo al loro restauro e manutenzione. Durante una cerimonia ufficiale il diritto di patronato sul coro venne ceduto ai Sassetti. Il capofamiglia Francesco tuttavia, avendo come santo protettore l'omonimo Francesco d'Assisi, voleva far realizzare un ciclo di affreschi con le storie di san Francesco. La mai troppo celata rivalità fra domenicani e francescani, però, fece sì che i frati si opponessero fermamente all'idea di avere la cappella maggiore della loro chiesa decorata con scene di un santo non del loro ordine, per cui ne nacque una lunga disputa legale, che finì a dar ragione ai frati domenicani. Fu così che il Sassetti dovette ripiegare sulla chiesa di Santa Trinita, dove Domenico Ghirlandaio dipinse quello che è considerato il suo capolavoro, la Cappella Sassetti[1].

Giovanni Tornabuoni

Francesca Pitti
Il Ghirlandaio però non perse la commissione, perché nel 1485, quando gli affreschi in Santa Trinita non erano ancora ultimati, Giovanni Tornabuoni lo chiamò per affrescare la stessa cappella maggiore di Santa Maria Novella (il contratto è datato 1 settembre), questa volta con scene della vita di Maria e di san Giovanni Battista (patrono di "Giovanni" Tornabuoni e della città di Firenze stessa, per cui benvisto da tutti i cittadini), che probabilmente ricalcavano le precedenti scene dell'Orcagna. Il Tornabuoni infatti aveva negoziato con i Ricci il patronato per la cappella perso dal Sassetti cinque anni prima. Riporta il Vasari un aneddoto circa i patti tra Tornabuoni e Ricci: quest'ultimi avevano spuntato nel contratto che il loro stemma figurasse comunque "nel più evidente et onorato luogo che fusse in quella cappella"; il Tornabuoni però alla fine lo fece inserire solo dismessamente nella cornice della pala d'altare presso il tabernacolo del Sacramento, che nonostante tutto venne dichiarato luogo "evidente et onorato" al magistrato degli Otto, essendo sopra al contenitore delle ostie e quindi di Cristo stesso[1].
Il contratto per l'esecuzione degli affreschi fu minuzioso, descrivendo la scene una per una, soffermandosi sulla decorazione degli sfondi e delle partiture architettoniche, con un ampio ricorso a colori costosi come gli azzurri e le dorature. Nelle scene devono comparire figure, città, monti, specchi d'acqua, rocce, animali, ecc. Ogni bozzetto deve essere sottoposto preventivamente al giudizio di Giovanni, che vi può apporre aggiunte vincolanti per l'autore. Il compenso previsto era di 1100 fiorini, anche se Vasari riporta la cifra di 1200 con la clausola di 200 extra in caso di piena soddisfazione del committente, che Ghirlandaio, sempre secondo lo storico aretino, avrebbe poi rifiutato[2].
Il Ghirlandaio compì il lavoro monumentale negli anni previsti dal contratto. Egli, che all'epoca era il più famoso artista presso l'abbiente classe mercantile fiorentina, vi lavorò quindi tra il 1485 e il 1490 (come testimonia l'iscrizione sopra la scena dell'Annuncio a Zaccaria AN[NO] MCCCCLXXXX QUO PULCHE[R]RIMA [sic] CIVITAS OPIBUS VICTORIIS ARTIBUS AEDIFICIISQUE NOBILIS COPIA SALUBRITATE PACE PERFRUEBATUR, cioè "L'anno 1490 in cui la città bellissima per ricchezze, vittorie e attività, celebre per i suoi monumenti, godeva di abbondanza, buona salute, pace"[2]), con l'aiuto della sua bottega nella quale figuravano altri artisti quali i fratelli David e Benedetto, suo cognato Sebastiano Mainardi e anche il giovanissimo Michelangelo Buonarroti, che all'epoca appena adolescente, la cui mano non è però riscontrabile con certezza in nessuna scena. Vista la grandezza dell'impresa molto venne dipinto con l'ausilio degli aiuti, ma al maestro Domenico spettò il disegno di tutto il ciclo e la sorveglianza affinché lo stile finale risultasse omogeneo. Anche le vetrate furono fatte su suo disegno, e il tutto era completato da una magnifica pala d'altare a più scomparti, che oggi è divisa tra più musei[1].

Cappelle di destra 

Cappella di Filippo Strozzi 

si trova a destra della cappella centrale e conserva uno straordinario ciclo di affreschi di Filippino Lippi, con torie delle vite di San Filippo apostolo e San Giovanni evangelista (terminato prima del 1502).

  Sul lato destro San Filippo scaccia il dragone dal tempio di Hierapolis 

 

e sulla lunetta La crocefissione di San Filippo ;

 

 a sinistra San Giovanni resuscita Drusiana

  

 e in alto Il martirio di San Giovanni; nelle lunette della volta Adamo, Noè, Abramo e Giacobbe. Particolare importanza hanno le scene centrali degli affreschi, ambientate in alcune fantasiose architetture classiche, nelle cui scene si combatte uno scontro fra cultura cristiana e paganesimo, un tema allora di scottante attualità in quanto era il periodo di governo del Savonarola. Dietro l'altare è presente la tomba di Filippo Strozzi, scolpita da Benedetto da Maiano (1491-1495). 

 

Cappella Bardi

dedicata a San Gregorio, è la seconda a destra e appartenne alla Compagnia della Laudi di Santa Maria Novella. Nel 1335 il patronato passò alla famiglia Bardi di Vernio. Appartengono a questo momento il rilievo sul pilastro di destra con San Gregorio che benedice Riccardo Bardi e gli affreschi con Storie di San Gregorio Papa, attribuiti di recente al pittore anonimo bolognese Pseudo Dalmasio. Un secondo strato di affreschi emerge dalle numerose lacune che interrompono la superficie pittorica: si tratta di una decorazione più antica che venne realizzata assieme ai lunettoni già attribuiti a Duccio di Buoninsegna. La Madonna del Rosaio sull'altare è di Giorgio Vasari (1568).

 

 

Cappella Rucellai 

si trova in posizione rialzata in fondo al braccio destro del transetto e risale al Trecento. Vi è conservata una statua marmorea di Madonna con bambino di Nino Pisano, della metà del XIV secolo. Gli affreschi sono molto danneggiati e rimangono solo dei frammenti attribuiti al Maestro della Santa Cecilia (restaurati nel 1989). Il pannello sulla parete di sinistra (Martirio di Santa Caterina d'Alessandria) fu dipinto da Giuliano Bugiardini tra il 1530 e il 1540, mentre il monumento funebre in bronzo al centro del pavimento fu realizzato da Lorenzo Ghiberti nel 1425. Un tempo vi era collocata la Madonna Rucellai, oggi agli Uffizi, che infatti prende il nome da questa cappella, anche se questa non era la sua collocazione originaria.

Cappelle di sinistra

 A sinistra della cappella maggiore si trova la  

Cappella Gondi

disegnata da Giuliano da Sangallo (1503), dove è conservato il Crocifisso di Filippo Brunelleschi,

 


 l'unica scultura lignea conosciuta del grande architetto fiorentino. Secondo una storia riportata dal Vasari, il Brunelleschi lo avrebbe scolpito in risposta al Crocifisso di Donatello conservato in Santa Croce e da lui definito primitivo. Le volte contengono serie di affreschi fra i più antichi della chiesa, del Trecento, attribuiti a maestranze greco-bizantine. La vetrata è recente e risale al secolo scorso

Segue l Cappella Gaddi,
di Giovanni Antonio Dosio (1575-1577), ammirata dai contemporanei come la prima cappella fiorentina incrostata a commesso di marmi e pietre dure. .La pala d'altare è l'ultima opera del Bronzino e fu composta nel 1570-1572. Realizzata prima che venisse allestita la decorazione della cappella fu spostata qui solo successivamente. Raffigura la Resurrezione della figlia dell'arcisinagogo per opera di Gesù Cristo. Gli affreschi inseriti negli specchi della volta e dell'intradosso dell'arco di entrata sono invece di Alessandro Allori, allievo del Bronzino, firmati e datati nel 1577. Raffigurano Scene della vita di San Girolamo, Virtù e altre figure allegoriche.




In fondo al braccio sinistro del transetto, in posizione rialzata simmetricamente alla Cappella Rucellai, si trova la

 Cappella Strozzi di Mantova,
per distinguerla da quella di Filippo Strozzi. Anche questa è coperta di affreschi pregevoli, che risalgono al 1350-57, fra le migliori opere di Nardo di Cione (fratello di Andrea Orcagna), e rappresentano i regni dei cieli strutturati secondo la Divina Commedia di Dante: sulla parete di fondo il Giudizio Universale, dove si trova anche un ritratto di Dante, a destra l'Inferno e a sinistra il Paradiso. Sull'altare maggiore Il Redentore con Madonna e santi dell'Orcagna. Nardo di Cione preparò anche il cartone per la vetrata della cappella.

Sulla parete esterna della cappella si trova un orologio affrescato, dove si può leggere anche un distico di Agnolo Poliziano. Poco distante si apre a destra la cappella del Campanile, con resti di decorazioni ad affresco trecentesche, un'Incoronazione di Maria all'esterno e un San Cristoforo all'interno. Sulla parete sinistra del transetto, sopra le due porte, un elegante vano progettato da Fabrizio Boschi nel 1616 ospita un sepolcro Cavalcanti.





Il cappellone degli Spagnoli

Gli affreschi vennero dipinti dal 1365 al 1367, da Andrea di Bonaiuto e vari collaboratori.

Il tema del ciclo di affreschi è l'esaltazione dell'ordine domenicano, in particolare riguardo alla lotta dell'eresia per la salvezza della Cristianità.

 Più famosi sono gli affreschi sulle due pareti laterali.

A destra la Via Veritas, ovvero Chiesa militante e trionfante,


una complessa allegoria enciclopedica del trionfo, opera e missione dei Domenicani. In basso a sinistra le autorità religiose sono in trono davanti a un modello di Santa Maria del Fiore, che curiosamente presenta già l'aspetto finale sebbene ancora nessuno sapesse come costruirne l'immensa cupola. Si pensa che l'aspetto dipinto sia quello secondo un modello approntato da alcuni artisti compreso il Bonaiuti nel 1367 e poi effettivamente realizzato, ma con altri capimastri. Attorno a questi religiosi, dove al centro figura il papa, si trovano altri religiosi e uomini di ogni condizioni sociale, che rappresentano il gregge dei cristiani custodito dai cani pezzati: i domini-canes, cioè i cani del Signore, come amavano autodefinirsi i domenicani stessi, il cui saio bianco e nero ricorda i colori degli animali. Più a destra sono raffigurati i santi Domenico, Pietro martire e Tommaso d'Aquino che confutano gli eretici. Ai piedi di questa scena è rappresentato il medesimo tema in chiave allegorica: i cani che inseguono e sbranano i lupi.



Profilo artistico [modifica]

Gli affreschi di Andrea di Bonaiuto sono emblematici del periodo della seconda metà del Trecento a Firenze, quando, per ragioni non ancora pienamente spiegate, l'arte mostrava segni di schematismo figurativo, di irrazionalità compositiva, di stanchezza e calo inventivo, prima della magnificenza tardo gotica, seguita con breve scarto dal rinascimento.
Andrea accantonò le conquiste formali di Giotto e della sua scuola, senza usare la prospettiva intuitiva e la disposizione realistica delle figure nello spazio, senza la vivida spiritualità di altri autori quali Giottino. Creò scene corali, affollate da un'umanità diversificata, con alcuni dettagli patetici quali lo svenimento della Madonna nella scena della Crocefissione.
Al pari però di altri artisti attivissimi all'epoca, quali Nardo di Cione e l'Orcagna, le rappresentazioni sono piuttosto statiche (si guardi alla rigida geometria del Trionfo di San Tommaso d'Aquino), l'individuazione dei personaggi è epidermica, la narrazione è più convenzionale, il gusto in generale è più arcaizzante.
Un po' più di vivacità venne recuperata negli ultimi decenni del secolo da Agnolo Gaddi e Spinello Aretino, ma l'unico a Firenze in grado di sviluppare coerentemente l'eredità giottesca in quel periodo, a parte Giottino, fu Giovanni da Milano.


 La destinazione alle funzioni religiose per gli spagnoli fu decretata da Cosimo I nel 1566 a favore della moglie spagnola Eleonora di Toledo qui ritratta dal Bronzino



: risale a quell'epoca la decorazione della scarsella-abside con l'altare, con affreschi sulle pareti e sulla volta della cerchia di Alessandro Allori, così come la pala d'altare raffigurante San Jacopo condotto al martirio guarisce un paralitico, di mano del maestro (1592)

Il polittico con Madonna in trono  con Bambino e santi
di Bernardo Daddin era posto sull'altare oggi è esposto nel refettorio dove è 

 curiosa è la presenza dell'affresco della Madonna in Trono di Andrea Bonaiuti circondata da una rutilante teoria di personaggi in inequivocabile stile manierista (Miracoli dell'Esodo), opera di Alessandro Allori del 1597. In realtà l'Allori aveva dipinto l'affresco come cornice ad una sua tavola con l'Ultima Cena (1584), esposta sulla parete vicina, che aveva coperto l'affresco del Boaniuti preservandolo.



 Il Chiostro Verde
l chiostro è famoso per il ciclo di affreschi in parte realizzato da Paolo Uccello verso il 1425-1430.





lunedì 17 dicembre 2012

Biblioteca Medicea Laurenziana

All'ingresso il chiosco con al centro una magnifico arancio
La Biblioteca Medicea Laurenziana, anticamente chiamata Libreria Laurenziana, è una delle principali raccolte di manoscritti al mondo, nonché un importante complesso architettonico di Firenze, disegnato da Michelangelo Buonarroti tra il 1519 e il 1534.
Essa custodisce 68.405 volumi a stampa, 406 incunaboli, 4.058 cinquecentine e, soprattutto, 11.044 pregiatissimi manoscritti[1], nonché la maggiore collezione italiana di papiri egizi. Vi si accede dai chiostri della basilica di San Lorenzo a Firenze, da cui il nome Laurenziana. Medicea deriva invece dal fatto di essere nata dalle collezioni librarie di membri della famiglia Medici.



Lo scalone nel vestibolo

La scalinata di Michelangelo
Il problema del dislivello tra vestibolo e sala di lettura richiese la creazione di uno scalone. Il disegno per la celebre scala tripartita venne fornito nel 1559 e inizialmente era previsto l'uso del legno di noce, che poi Bartolomeo Ammannati eseguì in pietra serena su volontà di Cosimo I.
Per la prima volta si può riconoscere un'anticipazione dello stile barocco che di lì a poco avrebbe invaso l'Europa[6]. Se infatti le linee rette delle parti laterali sono pienamente rinascimentali, i monumentali gradini centrali, di forma ellittica come una immaginaria colata di pietra, sono un'invenzione originale di Michelangelo; questa particolare linea curvata fu usata anche nei sepolcri medicei della Sagrestia Nuova e nelle arcate del ponte Santa Trinita. La scala è infatti costituita da una parte centrale dove domina la curva e da altri due accessi laterali con gradini squadrati.Lo spettatore davanti all'ingresso vive l'emozione di assistere a una vera e propria cascata di materia viva trattenuta dalla presenza di due rigide balaustre.

La Biblioteca conserva oggi all'incirca 11.000 manoscritti, 2.500 papiri, 566 incunaboli, 1.681 cinquecentine e circa 120.000 edizioni a stampa (dal XVII al XX secolo). Seppure non vastissimo, il patrimonio librario è particolarmente importante in quanto risultato di scelte consapevoli che hanno creato un corpus ragionato, nel quale numerosi pezzi spiccano per antichità, pregio filologico e bellezza.
Il nucleo della collezione libraria proviene dalle raccolte private dei Medici, per cui numerosissimi manoscritti furono copiati, spesso di pugno di umanisti del calibro di Pico della Mirandola, Coluccio Salutati, Poggio Bracciolini, Marsilio Ficino e Niccolò Niccoli. Molti furono sfarzosamente miniati e rilegati.
Nel 1757 il canonico Angelo Maria Bandini assunse l'incarico di Bibliotecario e sotto la sua direzione la biblioteca si arricchì ulteriormente. In quel periodo venne compilato un prezioso catalogo a stampa (i cosiddetti plutei, dal nome dei banconi della sala michelangiolesca che allora erano ancora usati per custodire i libri) tuttora indispensabile agli studiosi per il reperimento dei volumi nei depositi. Nel 1771 arrivarono le collezioni della Biblioteca Palatina di Palazzo Pitti, anche se lo spirito razionale del Granduca Pietro Leopoldo fece spostare la maggior parte dei libri a stampa, che costituivano parte integrante della biblioteca Laurenziana, alla Biblioteca Magliabechiana (ora Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze). Nel 1783 181 manoscritti più antichi vennero convogliati qui.
Nel 1818 il bibliofilo fiorentino Angelo Maria d'Elci donò la sua preziosa raccolta di prime edizioni di classici latini e greci appositamente rilegate; alla fine dell'Ottocento l'acquisto della biblioteca di Lord Bertram Ashburnham arricchì ulteriormente il patrimonio librario di preziosi codici, molti dei quali di origine italiana, come il trattato di Architettura civile e militare di Francesco di Giorgio Martini, il codice delle Rime del Petrarca fregiato delle armi di Galeazzo Maria Sforza e persino un piccolo e mirabile Libro d'Ore, probabilmente appartenuto alla famiglia di Lorenzo il Magnifico.
La raccolta, circa 2.500 papiri, inconsueta presenza per una biblioteca italiana, è il risultato delle campagne di scavo italiane in terra d'Egitto, i cui reperti non caratcei sono esposti in larga parte nel Museo Egizio, una sezione del Museo Archeologico Nazionale di Firenze.
La biblioteca è tuttora aperta agli studiosi, che possono ottenere in consultazione, nell'apposita sala (che ha sostituito negli anni '70 la Tribuna Elci), tutti i volumi della collezione, o, nel caso di volumi troppo delicati per essere manipolati, i microfilm.


I locali della Biblioteca furono disegnati per il cardinale Giulio dei Medici, poi Papa Clemente VII, che affidò nel 1519 la commissione a Michelangelo. Egli diresse personalmente il cantiere tra il 1524 e il 1534, sia pure con l'interruzione dovuta alla parentesi repubblicana. Alla morte del proprio padre e di Clemente VII, Michelangelo lasciò Firenze, con l'intenzione di non tornarci mai più. La costruzione fu ultimata lentamente negli anni successivi da altri architetti, a partire dal 1548, grazie all'impegno di Cosimo I de' Medici.

Michelangelo continuò a soprintendere, malvolentieri[2], i lavori della Libreria da Roma, mediante l'invio di istruzioni, modelli e disegni ed il tramite di vari artisti fiorentini presenti sul cantiere a vario titolo tra cui il Tribolo, l'Ammannati e il Vasari. Solo nel 1558 Michelangelo fornì il modello in argilla per lo scalone, da lui progettato in legno, ma realizzato per volere di Cosimo I de' Medici, in pietra serena.
I lavori terminarono soltanto nel 1571, anno dell'apertura al pubblico; altri lavori furono eseguiti di tempo in tempo fino all'inizio del XX secolo.
La biblioteca è una delle maggiori realizzazioni dell'artista fiorentino in campo architettonico, importante anche per le decorazioni e l'arredo interno, giunto in buono stato fino a noi (Michelangelo fornì anche disegni degli stalli di legno per la lettura dei manoscritti). L'opera viene ritenuta una piena espressione dell'atteggiamento manierista che rivendica la libertà linguistica rispetto alla canonizzazione degli ordini classici e delle regole compositive.

Fu consacrata nel 393 ed è una delle chiese che si contendono il titolo di più antica della città; per trecento anni ha avuto il ruolo di cattedrale, prima di cedere lo status a Santa Reparata, quando vennero solennemente traslate le spoglie del primo vescovo di Firenze, san Zanobi. Fu ampliata e riconsacrata una prima volta nel 1059, con un capitolo di Canonici nella chiesa che diede impulso alla costruzione di alcuni ambienti come il chiostro a lato della chiesa.
Fu deliberato dai Canonici un nuovo ampliamento all'inizio del XV secolo, ma i lavori procedettero inizialmente molto a rilento. Nel 1418 il priore Matteo Dolfini ottenne dalla Signoria il permesso per abbattere alcune case per ingrandire il transetto della chiesa e il 10 agosto 1421 egli celebrò una solenne cerimonia per benedire l'inizio dei lavori. Tra i finanziatori c'era il ricchissimo banchiere Giovanni di Bicci de' Medici, che abitava nel quartiere, e che fece probabilmente il nome dell'architetto che già stava lavorando alla sua cappella, l'odierna Sagrestia Vecchia, cioè Filippo Brunelleschi. La ricostruzione dell'intera chiesa fu un progetto che dovette maturare in un secondo momento, probabilmente dopo il 1421, quando morì il Dolfini. L'inizio dell'intervento brunelleschiano viene generalmente collocato in quell'anno.
Mentre la sagrestia veniva terminata nel 1428 (e nel 1429 vi si celebrarono le esequie solenni di Giovanni de' Medici), i lavori alla chiesa erano invece andati poco avanti ed erano pressoché bloccati. Dopo il 1441 si prese l'onere quasi per intero della ricostruzione Cosimo de' Medici, figlio di Giovanni, ma i progressi continuarono ad essere lenti, segnati da incertezze e interruzioni. In questa seconda fase la direzione dei lavori passò probabilmente a Michelozzo, architetto del vicino palazzo Medici e erede di numerosi cantieri avviati da Brunelleschi, ormai anziano e concentrato su altre opere.
Dal 1457 fu alla direzione del cantiere Antonio Manetti Ciaccheri e nel 1461 venne consacrato l'altare maggiore. Tre anni dopo Cosimo de' Medici moriva e veniva sepolto in una cripta sotterranea, posta in un pilastro esattamente al di sotto dell'altare centrale.
Da allora San Lorenzo divenne il luogo di sepoltura dei componenti della famiglia Medici, tradizione proseguita, salvo alcune eccezioni, fino ai Granduchi e all'estinzione della casata.

La facciata della chiesa era rimasta incompiuta: papa Leone X, Medici, dopo un concorso a cui parteciparono grandissimi artisti come Raffaello e Giuliano da Sangallo, dette a Michelangelo il compito di progettarne una nel 1518. L'artista fece un modello ligneo di una facciata classica e proporzionata, ma l'opera non fu ugualmente portata a termine, per problemi tecnici e finanziari insorti già dall'approvvigionamento dei materiali. Sempre Leone X commissionò la Sagrestia Nuova al grande artista, per conservare i sepolcri dei due rampolli di casa Medici, Lorenzo Duca d'Urbino e Giuliano Duca di Nemours, che erano morti entrambi sui trent'anni con grande costernazione del papa che tanto si era adoperato per la loro affermazione. L'opera fu realizzata a più riprese e solo l'offerta di un salvacondotto proposto dai Medici a Michelangelo, reo di aver preso parte alle vicende della Repubblica fiorentina, convinse l'artista a terminare l'opera che altrimenti sarebbe rimasta uno dei tanti "non finiti" michelangioleschi.
Clemente VII, l'altro papa Medici, non mancò pure di arricchire il complesso di San Lorenzo, incaricando Michelangelo di realizzare la Biblioteca Medicea Laurenziana, mentre dentro la chiesa fece costruire il balcone nella controfacciata per l'esposizione delle reliquie.
Il piccolo campanile risale invece al 1740, opera di Ferdinando Ruggieri.
L'ultima della dinastia Anna Maria Ludovica commissionò l'ultima opera importante nella basilica: la decorazione della cupola con la Gloria dei santi fiorentini ad opera del pittore Vincenzo Meucci (1742), una magra compensazione però in confronto alla distruzione degli affreschi di Pontormo nel coro, perpetrata in quegli stessi anni.
Con la soppressione ottocentesca degli enti religiosi, la biblioteca fu separata giuridicamente dal resto del complesso e venne creato il Museo delle Cappelle Medicee. Nel 1907 fu istituita l'Opera Medicea Laurenziana per la gestione e la salvaguardia della basilica.
La basilica (interno). Si noti, sullo sfondo, il grande Organo Serassi
Interno, verso la controfacciata



















La chiesa è a croce latina a tre navate, con cappelle lungo il piedicroce e i lati del transetto. All'incrocio dei bracci si trova una cupola. L'impianto, come in altre opere di Brunelleschi, si ispira ad altre opere della tradizione medievale fiorentina, come Santa Croce, Santa Maria Novella o Santa Trinità, ma a partire da questi modelli Brunelleschi prese spunto per qualcosa di più rigoroso, con esiti rivoluzionari. L'innovazione fondamentale sta nell'organizzazione degli spazi lungo l'asse mediano applicando un modulo (sia in pianta che in alzato), corrispondente alla dimensione di una campata quadrata, con la base di 11 braccia fiorentine, lo stesso dello Spedale degli Innocenti (edificato dal 1419). L'uso del modulo regolare, con la conseguente ripetizione ritmica delle membrature architettoniche, definisce una scansione prospettica di grande chiarezza e suggestione. Le due navate laterali sono state definite come lo sviluppo simmetrico del loggiato dello spedale, applicato per la prima volta all'interno di una chiesa: anche qui infatti l'uso della campata quadrata e della volta a vela genera la sensazione di uno spazio scandito come una serie regolare di cubi immaginari sormontati da semisfere. Le pareti laterali sono decorate da paraste che inquadrano gli archi a tutto sesto delle cappelle. Queste ultime però non sono proporzionate al modulo e si pensa che siano una manomissione al progetto originale di Brunelleschi, messa in atto almeno dopo la sua morte (1446). Inoltre la razionalità dell'impianto nel piedicroce non trova un riscontro di analoga lucidità nel transetto, poiché qui probabilmente Brunelleschi dovette adattarsi alle fondazioni già avviate dal Dolfini.
In base a rilievi, studi delle fondazioni, indagini d'archivio e a un disegno di Giuliano da Sangallo dell'inizio del XV secolo[senza fonte][2] si è ricostruito che il progetto originale dovesse prevedere un giro di cappelle a pianta quadrata (invece che rettangolare come sono adesso), con volta a vela e abside sulla parete di fondo, che proseguisse anche in controfacciata e alle testate del transetto e del presbiterio, dove erano previste coppie di cappelle simmetriche su ciascuna estremità.
Nonostante le alterazioni la basilica trasmette ancora un senso di concezione razionale dello spazio, sottolineata dalla membrature architettoniche portanti in pietra serena, che risalta sull'intonaco bianco secondo il più riconoscibile stile brunelleschiano. L'interno è estremamente luminoso, grazie alla serie di finestre ad arco che corre lungo il cleristorio.
Innovativo è il "dado brunelleschiano" composto da colonna, per lo più di ordine corinzio,e di un tratto di trabeazione con fregio a cui si poggia usualmente un arco. Il soffitto della navata centrale è decorato a lacunari, con rosoni dorati su sfondo bianco.
All'architettura interna della chiesa lavorò anche Michelangelo, autore della Tribuna delle reliquie in controfacciata (1531-1532) per Clemente VII.
Sul retro della chiesa (con accesso dal retro su Piazza Madonna degli Aldobrandini) si apre la grandiosa Cappella dei Principi, con la sua grande cupola che a Firenze è la seconda per grandezza dopo quella del Duomo. Luogo di sepoltura dei Granduchi Medicei fu un'impresa grandiosa avviato al tempo di Ferdinando I; i Medici le stavano ancora pagando quando l'ultimo membro, Anna Maria Luisa de' Medici, morì nel 1743. Nella cripta di Bernardo Buontalenti sono sepolti circa cinquanta membri tra maggiori e minori della famiglia, mentre nella parte superiore, nella grande sala ottagonale sormontata da una cupola, vi sono i cenotafi (tombe vuote) monumentali dei granduchi di Toscana.

Opere Presenti 

Uno dei 2 pulpiti della Resurrezione di Donatello sullo sfondo  La Pala del Sacramento, tabernacolo di Desiderio da Settignano 
Sarcofago della famiglia Martelli (1455 circa), che simula una grande cesta di vimini e si trova nella cappella tra il transetto sinistro e la navata. Magistrale è la lavorazione del marmo, che esalta le rotondità e la sinuosità dell'intreccio.
Filippo Lippi: pala d'altare dell'Annunciazione Martelli nella cappella del transetto sinistro, finanziato dalla famiglia Martelli che lì aveva una cappella (1450 circa). Affascinanti sono gli elementi complementari alla scena che catturano l'occhio dello spettatore, come la struttura architettonica, l'ampolla di vetro trasparente, in realtà un simbolo del concepimento divino.
La Tomba di Giovanni e Piero de' Medici è un'opera in marmi, bronzo e pietra serena di Andrea del Verrocchio e si trova nella Basilica di San Lorenzo a Firenze, nell'intercapedine tra il transetto sinistro (Cappella delle Reliquie) e la Sagrestia Vecchia. Risale al 1469-1472  l monumento venne commissionato da Lorenzo de' Medici per la sepoltura del padre Piero, morto nel 1469, e dello zio Giovanni, morto nel 1463. L'opera venne completata nel 1472.
Il sepolcro, invece di essere addossato a una parete, si trova al di sotto di un arco che apre un'intercapedine tra i due vani, i quali erano entrambi sotto il patronato dei Medici. Il sarcofago è in porfido e poggia su uno zoccolo. È decorato da zampe leonine e girali bronzee, che riprendono il modello di Desiderio da Settignano, mentre il motivo del medaglione centrale, in serpentino verde, venne ispirato dal tabernacolo di Santa Maria a Peretola e dalla tomba di Benozzo Federighi di Luca della Robbia. Lo zoccolo poggia su tartarughe bronzee, ispirate all'Ercole e Anteo di Antonio del Pollaiolo, mentre la grata bronzea, fingente una corda intrecciata, che scherma l'apertura tra i due vani, venne probabilmente ripresa dalla tomba di Neri Capponi in Santo Spirito, del Rossellino.
La decorazione non presenta figure umane scolpite, ma è basata sulla rarità preziosa dei materiali e sull'impeccabile esecuzione. La novità del monumento sta soprattutto nell'originale collocazione in un ambiente di passaggio, con la grata che scherma il trapaso tra pieni e vuoti, facendo vibrare la luce sulle sue maglie.






 Il coro della basilica di San Lorenzo a Firenze conteneva un perduto ciclo di affreschi di Pontormo, databile alla sua estrema attività (1546-1556, un anno prima della sua morte) e probabilmente il suo capolavoro. Fu distrutto per le connotazioni religiose non ortodosse verso il 1742.

 Pontormo i capolavori perduti
 Gruppo di morti










































 Cristo giudice e creazione di Eva

Lavoro dei Progenitori





 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                         Mosè riceve le tavole della Legge

 

 

 

 

 

Gli Evangelisti

 



  

Resurrezione dei corpi (dettaglio)


Lo Sposalizio della Vergine (o Pala Ginori) è un dipinto a olio su tavola (325x250 cm) di Rosso Fiorentino, firmata e datata 1523, e conservato nella basilica di San Lorenzo di Firenze. La firma "Rubeus Florentino" si trova scritta nel libro che la santa in primo piano a destra tiene aperto, dove essa segna col dito; inoltre si trova, con la data 1523, incisa sul gradino sotto il sacerdote.

L'opera aveva un particolare significato devozionale, poiché davanti ad essa le giovani spose venivano a far benedire gli anelli nuziali. Forse grazie a tale uso non venne mai spostata dalla sua collocazione originale. La scena è molto affollata e impostata simmetricamente, con al centro Giuseppe, con la mazza fiorita, che sta infilando l'anello a Maria benedetto dal sacerdote dietro di loro. Abbandonando la tradizione iconografica, senza sottostare a quei vincoli dottrinali che di lì a poco ribadirà la controriforma, Giuseppe è rappresentato come un bel giovane, anziché anziano e quindi incapace di intaccare la verginità di Maria. Una tale scelta rivoluzionaria ha sempre interessato gli studiosi e l'unica possibile spiegazione finora trovata è che voglia rappresentare simbolicamente la renovatio ecclesiae promossa da Leone X e portata avanti da Clemente VII. Non è escluso però che si tratti di una scelta dell'autore, artista ai limiti del dissacrante, per non dire in alcuni casi quasi blasfemo. San Giuseppe è stato definito somigliante al David di Donatello, secondo un'ispirazione da fonti quattrocentesche che si ritrova anche in altre opere dell'artista. Come fonti che hanno ispirato la composizione sono stati indicati gli affreschi di Pontormo e Franciabigio nel Chiostrino dei Voti, in particolare la Visitazione, con un'analoga struttura a gradini con figure in piedi, sedute e inginocchiate disposte a mezzaluna attorno al centro, e lo Sposalizio della Vergine, con la figura simile del sacerdote e la quinta architettonica dislocata appena dietro le figure. Nuova, rispetto ad esempio ad opere di appena un anno prima come la Pala Dei, è la consistenza del colore, diventato sbaliginante e ricco di riflessi cangianti, forse per influenza di Perin del Vaga appena tornato da Roma

 

 Agnolo Bronzino, Il martirio di San Lorenzo grandioso affresco .....non è certo il suo capolavoro